16 febbraio 2021 - 22:56

Massimo Ammaniti: «Mamma se ne andò da casa e da allora ho dedicato la mia vita ai bambini»

Gli ottant’anni del grande psicoanalista, padre dello scrittore. «Sono stato uno dei primi figli di separati. Niccolò? Non credo che conosca bene la mia vicenda».

di Roberta Scorranese

Massimo Ammaniti: «Mamma se ne andò da casa e da allora ho dedicato la mia vita ai bambini» Foto di Claudio Guaitoli
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Professore, lei è entrato nell’ottantesimo anno di una vita consacrata ai bambini. Ma raramente nelle interviste le chiedono: com’è stata la sua infanzia?
«Un’infanzia particolare: mia madre se ne andò da casa negli anni Cinquanta, un’epoca in cui quasi nessuno lasciava il tetto coniugale, specie le donne. Eppure lei ci lasciò, ma non solo: andando via trovò se stessa, cominciò a lavorare, fece carriera. Assieme alla morte prematura di mia sorella, per una meningite fulminante, penso che questo sia stato decisivo nelle mie scelte di vita e lavoro. Tanto per capirci, nella mia scuola ero l’unico bambino figlio di separati».

A volte basta un dettaglio per illuminare una persona. E un dettaglio come questo può spiegare come mai Massimo Ammaniti, 80 anni a luglio, sia diventato uno dei più importanti specialisti del cervello e della mente dei bambini e degli adolescenti. Neuropsichiatra e psicoanalista, qui racconta qualcosa di cui parla raramente: la sua vita privata, così ricca di colpi di scena che assomiglia ad un romanzo. Un po’ come quelli che scrive il figlio, Niccolò. «Non credo che lui conosca bene la mia vicenda. Non ricordo di avergliene parlato», osserva. E inizia qui, nel suo studio romano, una piccola storia turgeneviana, di padri e figli.

Come in ogni favola freudiana, però, si comincia con una domanda fondamentale: chi era sua madre?
«Si chiamava Filomena Giorgi. Donna curiosa e intelligente che, però, dovette sposarsi a soli diciotto anni in virtù di un matrimonio organizzato tra famiglie. Così entrò in una casa borghese, con un marito — mio padre — che era un pediatra bravo e rigoroso, ma di cultura tradizionalista. Diciamo pure fascista, via. Un orizzonte, quello, troppo circoscritto per lei, donna di sinistra e di vedute ampie».

Sua madre seguì il suo nuovo amore e la sua vita cambiò, ma lontano da voi.
«Dopo la separazione fondò addirittura una sua impresa di costruzioni, organizzò un coltissimo salotto culturale che finirà per accogliere persone come Pertini e Terracini, trovò se stessa grazie alla distanza da noi, da me».

L’ha odiata?
«Per anni ho nutrito un fortissimo rancore nei suoi confronti».

E così decise di restare con suo padre?
«Sì, mio fratello invece andò con lei. Ci fecero scegliere, pensi. Poi morì mia sorella. Meningite. All’epoca non ci si poteva fare nulla, ma mio padre ne restò segnato. Avvertì un senso di impotenza, come genitore e come pediatra, che lo spinse a dedicarsi ai bambini anima e corpo. Usciva di notte, lavorava molto e così, di fatto, non badava a me. Non è mai stato un “mammo”, insomma».

E com’era la vita di uno dei primissimi figli di separati?
«Ricordo le vacanze. Papà non aveva tempo per le ferie e così mi mandava a stare con i suoi amici, con famiglie che potevano seguirmi. Io avevo una decina di anni e passavo pomeriggi interi con i suoi coetanei, con i quarantenni. Ero molto triste».

E poi la misero in una scuola religiosa, il San Leone Magno.
«Negli stessi anni in cui c’era anche Sergio Mattarella. Fu lì che diventai comunista».

Un ambiente, quello, che ha ispirato «La scuola cattolica», il romanzo di Albinati.
«Esattamente. E ancora oggi mi chiedo se sono diventato comunista per sfuggire all’ombra di mio padre oppure per tentare di riacchiappare mia madre. Fatto sta che poi mi iscrissi a Medicina e mi elessero nel parlamento studentesco della sinistra. Mio padre non ha mai compreso queste scelte, non poteva. Però le ha sempre rispettate».

Tesi di laurea: gli effetti dell’elettroshock.
«Fu una presa di coscienza molto forte. Capii come venivano trattati i disturbi mentali e decisi che avrei combattuto quei metodi. Scelsi neuropsichiatria con il preciso intento di curare i bambini. Andai a fare ricerca con il più grande specialista di allora, Giovanni Bollea».

Lui finì per vedere in lei l’erede ideale.
«Sì, ma incombeva il Sessantotto. La sinistra sferrò un durissimo attacco contro la neuropsichiatria infantile tradizionale, che metteva i bambini affetti da handicap in scuole speciali, coltivando l’emarginazione. Io aderii a quella corrente, che cosa potevo fare? Così dissi addio anche a questo secondo padre, anzi fu Bollea stesso che mi invitò ad andare via».

Curare i bambini con disturbi mentali senza emarginarli. Era questa la grande sfida dell’epoca?
«Ma non era facile, eravamo in pochi a pensarla così. Fu così che, assieme ad Alessandra Ginzburg (figlia di Natalia e Leone, ndr), fondammo la scuola integrata con bambini disabili, a Trastevere. Credo che sia stato il primo esperimento al mondo. Un’avventura. Ma prima dovemmo vincere le diffidenze del quartiere: quelli erano tempi in cui i malati mentali venivano rinchiusi e punto».

E come faceste?
«Andai dai capi-caseggiato: sopravviveva infatti la struttura clandestina della Resistenza, una rete di vecchi notabili popolari, a cui spettava l’ultima parola nei cambiamenti sociali nella zona. Uno di questi, quando gli dissi che volevo fare scuole miste, allargò le braccia: “E vabbè, pure quei bambini so’ figli de Dio”».

Poi la mandarono al reparto di neuropsichiatria infantile a Santa Maria della Pietà. Fu un duro colpo per lei.
«Vidi cose orribili. Bambini nudi, legati al letto, con le spugne in bocca per non farli gridare, infermiere abbrutite, desolazione. Mi dimisi il giorno dopo».

Ma dopo due anni lei volle tornare. Con l’intenzione di cambiare le cose.
«Ero un folle. Aprii i cancelli, slegai i bambini, fondai una scuola all’interno e un centro diurno. Cercavo per loro una parvenza di normalità».

Voleva essere il loro padre.
«In un certo senso. Un giorno li portai tutti al mare. Quei bambini non avevano mai visto il mare, non dimenticherò mai il loro sguardo. Un’estate li portai con me ad Amatrice, in una specie di campo estivo. Il presidente della provincia cominciò a preoccuparsi. Anche in altri reparti si aprivano i cancelli, c’era aria di nuovo. Così venni allontanato».

E il suo attivismo non era sfuggito a Franco Basaglia.
«Era un amico e io ne apprezzavo l’impegno. Mi chiamò perché voleva affidarmi tutta l’area della psichiatria di bambini e adolescenti della provincia di Trieste. Partii in treno. Mia moglie e i collaboratori mi seguirono. Arrivammo a Venezia, dove era prevista una notte di sosta prima di raggiungere Trieste. Fu allora che decisi di tornare indietro».

Un altro «strappo» da un altro padre?
«Forse. Il mio ragionamento era questo: Franco Basaglia è stato importantissimo nell’evoluzione della psichiatria, però intuivo che con il tempo il suo attivismo, per forza di cose, sarebbe stato improntato al sociale, con poco spazio per la ricerca e per la cura dei malati. In sintesi: ero d’accordo sull’urgenza di slegarli, però quei pazienti andavano anche curati ed era su questo punto che io volevo concentrare la mia carriera. Non volevo solo l’attivismo».

Come reagì Basaglia?
«Non mi ha mai perdonato».

La sua intuizione aveva colto lo spirito del tempo. Un po’ come Muccioli, nascevano queste figure carismatiche che attiravano l’attenzione mediatica facendo finire in secondo piano la scienza e la sua evoluzione.
«Esattamente. Ho sempre pensato che molti, sì, a San Patrignano guarivano, ma molti altri — forse la maggior parte — si liberavano dalla schiavitù dalla droga per sviluppare una nuova dipendenza, quella di vivere per sempre a San Patrignano. Allora volai in America, studiai con i maggiori specialisti, approfondii il rapporto con la psicoanalisi».

Psicoanalisi che era vista come una specie di demonio in Italia. Anche dalla sinistra?
«Berlinguer diceva: per carità, non scoperchiamo i lupanari».

Perché tanta paura dell’inconscio?
«Uno dei limiti della sinistra, che ha sempre cercato di evitare la dimensione individuale preferendo quella collettiva e sociale, più consolatoria e comoda».

Professore, alla fine ha perdonato sua madre?
«Sì, perché l’ho capita».

E questo rapporto difficile con la figura materna ha influito sulle sue scelte sentimentali?
«No, sono stato fortunato. Ho incontrato mia moglie Fausta Gaetani sugli sci, in Francia. Avevo 24 anni quando ci siamo sposati. Lei è una napoletana intelligente, anticonformista ma anche tradizionalista. Un cardine per me».

È stato grazie a lei che ha conosciuto Eduardo De Filippo?
«Grazie a mia cognata, scenografa. Una sera Eduardo si esibiva a Roma, così andammo a salutarlo in camerino. Ci chiese di accompagnarlo a casa, abitava ai Parioli. Ci trattenne fino alle tre di notte, parlando di tutto, parlando senza sosta per non lasciarci andare via: capii che era un uomo molto solo».

Lei è credente?
«No, nemmeno la scuola cattolica è riuscita a inculcarmi la fede. Ma ho molto rispetto per chi crede, e qualche volta mi faccio domande anche io. La dimensione del sacro è molto importante nelle nostre vite. Ho, però, un’idea precisa del Paradiso».

E qual è?
«Immagino il Paradiso come un luogo dove tutti i miei cani che oggi non ci sono più mi verranno incontro e mi faranno le feste».

rscorranese@corriere.it

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