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10 febbraio 2022

Il cinema migrante


Film e registi che raccontano l'Italia che cambia. L'articolo di Goffredo Fofi

I primi anni della storia del cinema, quando ancora il cinema parlava solo con le immagini e lo accompagnava la musica di un pianino, parlarono già di migranti, ché erano gli anni del grande esodo dalle campagne europee e dalla loro fame (dal nord e dal sud, dall'est e dall'ovest) verso le terre promesse americane (soprattutto Stati Uniti e Argentina) e oceaniche (la mitica e lontanissima Australia).

Sono gli anni di Charlot, e del suo Emigrante, sublime sintesi di un fenomeno mondiale, delle sue fatiche e delle sue speranze e possibilità. In Italia, non si posero freni all'emigrazione, ché Crispi giustificò con una frase celebre e oscena: "o emigranti o briganti".

Sono innumerevoli i film che da allora hanno affrontato, di petto o di scorcio, le avventure tutte uguali e tutte diverse dei contadini e disoccupati che cercano la terra di Dio, le storie di migranti che sono state, spesso, anche storie di pionieri. Innumerevoli i film e un po' meno i romanzi, in Italia quasi soltanto un "racconto mensile" del Cuore di Edmondo De Amicis, il sintetico e bellissimo Dagli Appennini alle Ande. Da Griffith a Ford (Furore!), fino al film più bello di tutti, sul costo dello sradicamento come preludio alla fatica di metter nuove radici, di cambiare lingua e abitudini, di cambiare pelle: America America di Elia Kazan, che si chiamò stupidamente in Italia Il ribelle dell'Anatolia.

Da noi fu il fascismo, in chiave di interna propaganda ma anche di propaganda per le comunità degli emigrati, a tentare qualche brutta sortita, e più tardi un grande attore ma purtroppo mediocre regista, Aldo Fabrizi (Emigrantes), prima che, esploso il "miracolo economico", qualcuno si ricordasse degli italiani all'estero (Comencini per primo, e un giovane Pasolini sceneggiatore di La ragazza in vetrina) e anche, memore del bellissimo Toni di Jean Renoir di cui era stato assistente, Luchino Visconti con Vasco Pratolini alle spalle e la benedizione di Carlo Levi, parlando bensì delle nostre migrazioni interne, dei contadini del Sud che cercarono il benessere nel "triangolo industriale" (Rocco e i suoi fratelli, gran melodramma tuttavia sincero). Era il tempo di una brutta ma significativa poesia di un grande poeta, Rocco Scotellaro (un vero "intellettuale organico", figura rara nella storia di una cultura fondamentalmente borghese e piccolo-borghese). Essa diceva, cito a memoria: "Torino larga di cuore, / sei una fanciulla, mi prendi per mano. / Qui, gente che ti sogna come me, / nel vento delle Fiat".



Non è solo quel vento ad avere attratto e oggi ad attrarre, in Italia, in Europa, negli Usa, nel mondo di chi sta meglio e che inonda il pianeta delle immagini del benessere – di chi ha da mangiare e bere e che ha il necessario e spesso gode del superfluo – le masse di persone, contadini e disoccupati, pescatori e ragazzini e "donne di casa" ai quali tutti manca l'essenziale. Accolti dai benestanti con degnazione o disprezzo, o tutt'al più con la pelosa carità degli sfruttatori.

Quella di questi anni è una storia nuova, benché di esodi ancora e sempre "biblici", di tragedie terribili e ben note ma sulle quali la gran maggioranza dei nostri connazionali (e i loro rappresentanti politici) chiude gli occhi o alza il bastone. Il cinema di narrazione è pressoché morto – ridimensionato prima dalla televisione, tramortito e condizionato in un ruolo solo servile da Internet e dai suoi padroni – ma resta, e resterà, ne sono convinto, un cinema documentario e militante. Esso è già forte in Italia grazie a Rosi, Marcello, Rohrwacher, Munzi e altri ancora. Attenti, loro, nel mondo del cinema agonizzante e sempre o quasi ipocrita, quello da festival e da Oscar, ai drammi e dilemmi del nostro presente e dunque, necessariamente, al grande tema delle migrazioni.

Un fenomeno nuovo che dà molto da sperare non soltanto per quel che riguarda il cinema è quello dei nuovi italiani figli delle prime ondate di immigrati, le cosiddette seconde generazioni. Su queste è fondamentale puntare, se vogliamo rivitalizzare una cultura (non solo il cinema) asfittica – piagata dai due mali del narcisismo e del conformismo e tutta dentro la "società dello spettacolo", piagata dalla fuga o ignoranza di ogni rigorosa posizione militante. È dalle "seconde generazioni" che possiamo aspettarci molto ed è con loro dobbiamo scoprire, chi non lo ha già provato, il piacere di un dialogo forte e fraterno, avendone tanto da imparare.

Un primo grande successo è, a mia conoscenza, in cinema, il film di Hleb Papou Il legionario, un nuovo italiano venuto dalla Bielorussia, che racconta il conflitto tra due fratelli africani, nella Roma di un "sociale" che è esploso. Essi scelgono due strade diverse, estreme e bensì esemplari, rappresentative: il primo quella dell'integrazione nella società che lo accoglie e nella sua cultura al punto di diventare un agente della Celere e il secondo quella della fedeltà alle proprie origini. E il primo deve, con i suoi colleghi, sgombrare la casa occupata da tanti immigrati di tanti paesi diversi in cui vivono sua madre e suo fratello. Sul fondo, è una storia antichissima ma con caratteri del tutto nuovi, almeno per l'Italia. È una storia del nostro oggi e del nostro domani.




Goffredo Fofi




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